Ebbene sì… Io non mi arrendo! Non
mi voglio sottomettere a questo inveterato uso e spesso abuso di terminologie
anglofone da parte dei soliti “soloni” di turno. Da nessuna parte c’è scritto
l’obbligo, da parte dell’italiano qualunque, di sapere l’inglese e questa
“moda” ha anche aspetti razzisti e inequivocabilmente settari. Spesso poi chi
ostenta siffatto linguaggio lo fa in maniera inutile, presupponente e cafona.
Vi racconto, come curiosità, quello che mi è capitato pochissimo tempo fa.
Orbene, mi recai ad una conferenza (il tema e dove poco importa) ove c’era un
pubblico di circa 40 persone di ogni estrazione sociale e dall’altra parte
altre 6 a
dare aria ai denti a turno e davanti a un microfono. Dopo 90 minuti e passa di up, down, out, off, step, -ing, -ty, -tion, spot e altre amenità (per un di più ne contai oltre le 150) uno dei
relatori ha pensato bene di porre domande al pubblico e chiedere se c’era
qualcuno che volesse intervenire. A quel punto mi alzai e cominciai a
interloquire parlando solo in inglese. Lingua che credo di conoscere bene
magari non proprio con un accento oxfordiano ma di certo in maniera superiore
alla media nazionale. Notai subito che 4 dei conferenzieri mi guardavano con
fare stupito (e probabilmente capivano poco o nulla di quello che dicevo), uno
consultava distrattamente un’agenda e solo uno mi rispose in uno stentato (e
spesso errato) inglese. Passai quindi all’italiano e tutti rimasero allibiti.
Terminai il mio intervento dicendo che, osservato il loro abuso di parole
anglofone, avevo pensato di andare direttamente a quella lingua e visto poi lo
stupore consigliai a tutti gli astanti, con particolare riguardo a chi aveva il
microfono davanti, di parlare in futuro come normalmente mangia. Ah una cosa…
Ogni volta che leggo o sento quei palloni gonfiati (politici, giornalisti e
tuttologi) dire, a proposito dell’ennesimo scandalo sulle Banche, la parola bail in, da buon ligure, dato che si
pronuncia quasi “belin”, mi scompiscio dal ridere…una sorta di nemesi…
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